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Strani incontri.


 

“Ci siamo lasciati così”. Mentre lo dice non mi guarda nemmeno.

È intento a fissare la pinta che ha difronte. Sfiora i bordi superiori del boccale. Con pollice e indice disegna piccoli semicerchi. Come carezze.

“Così come?”. Lo incalzo, vedo che non ha voglia di parlare. Non mi importa. Voglio sapere.

“Con un abbraccio, in silenzio”. Parla piano, con marcata cadenza scozzese. Mi sforzo per capire.

“Le hai detto nulla?”.

“Nulla”.

Nella penombra del pub è convinto che non sia facile vedere la sottile linea umida che gli bagna la guancia.

Fine primo tempo. Mi alzo con la più classica delle scuse. Vado al bagno. Lo lascio solo qualche minuto.

 

Il bagno è un cesso. La parete è piastrellata di bianco fino ad altezza vita. Un buco a terra per lo scolo. Appesa al muro c’è la pubblicità di un servizio di traslochi. Mi chiedo quanto possano essere efficienti dei tizi che si fanno pubblicità così. La riflessione dura poco più del mio mitto fisiologico.

 

Ordino altre due birre, prima di tornare al tavolo. Mi puntello al bancone e nell’attesa osservo la barista intenta a spillarle. Bionda, capelli ricci. Seni ben esposti grazie alla generosa scollatura della camicia. Cinquanta percento vanità, cinquanta percento marketing.

Le tre pinte, che fino a quel momento avevo ritenuto innocue, mi costringono ad un pensiero eccitante.

Lo smorzo, forzandomi di farlo.

 

Torno al tavolo e lui è ancora lì. Pinta calda in mano e righe sul volto.

Gli porgo il boccale battendolo sul tavolo, per costringerlo a destarsi da quel lugubre incanto.

“Let’s go for a fag!”. Non ho altro di meglio da offrire se non birra fresca ed una sigaretta girata a mano.

 

Il patio del pub ci offre una vista incredibile. Il fianco di una collina, un pascolo in aperta campagna.

Aria fredda e umida. Un cenno di nebbia. L’Inghilterra a novembre assomiglia un po' alla pianura padana ma con una malinconia diversa. Almeno, io la percepisco così.

“Tony, it happened the same to me”.

Tony non è il suo vero nome. Ma funziona bene sia in inglese che in veneto. Lui non ribatte, quindi per me rimane Tony.

Alle mie parole vedo cambiare la sua espressione. Si distende per un attimo, è quasi sollevato.

Povero Tony. Pensava davvero di essere l’unico ad esserci passato.

 A quella birra fresca e alla sigaretta offerta, aggiungo un po' di empatia. Ne ha bisogno Tony, ma ne ho bisogno anche io. E così mi lascio andare.

 

“Sì, è successo anche a me”.

“Ci siamo lasciati così, in silenzio, abbracciati davanti alla stazione dei treni. Non era nemmeno l’alba”.

Adesso è Tony a voler sapere qualcosa in più. Curiosità che possa in qualche modo arginare lo strazio che si porta dentro.

“Did you say anything, to her?” Mi chiede.

“Nothing”.

“And what did you do, after that?”. Incalza.

“Nothing, I was late for work”.

Proprio così. Ero in ritardo per il lavoro. Accompagnata alla stazione dei treni, lei diretta a casa, in Italia.

Io dritto a lavoro. Perché solo quello avevo. Quello era rimasto. Mettere la testa in una sola direzione, per non rischiare di finire a pensare a tutte le cose che avrei potuto dire, o fare, per uscire da quella situazione.

Ero convito che, concentrandomi sul lavoro, il resto si sarebbe sistemato da solo. In qualche modo.

Così ho iniziato a lavorare anche nei giorni di riposo. Doppi turni in reparto, oppure conducevo valutazioni cliniche su pazienti, ricoverati in ospedale, ma trasferibili in struttura specializzata. Non ero mai fermo.

Temevo che, se mi fossi fermato, avrei iniziato a pensare. E pensare mi avrebbe fatto stare male.

 

Da qualche parte, nel mio armadio disordinato, conservo ancora l’attestato.

Duecentosettanta ore di lavoro. “Nurse of the month”. Si fa presto ad essere superficiali e vedere solo quello che fa più piacere. Tutti, manager e colleghi, convinti che fossi spinto dalla passione per il mio lavoro, dalla dedizione verso i pazienti che seguivo. Nessuno che si sia fermato un momento a chiedersi se andasse tutto bene.

E allora, ad un certo unto, mi sono fermato io. Ma questa è un’altra storia.

 

Ho lasciato Tony fuori al freddo, la sigaretta sarà finita.

Torno da lui, almeno per un saluto, so già che non lo rivedrò più.

Tony è uno di quei personaggi da bar. Da pub, in questo caso. Durano una sera. Li conosci, con alcuni si finisce a parlare anche di argomenti importanti. Poi, con la stessa facilità con cui sono arrivati, vanno via.

Tony non fa eccezione. Ci salutiamo, esce dal pub e dalla mia storia, però non è più lo stesso.

 

 

Le variabili di una salita.


 








Le variabili di una salita me le ha insegnate un signore anziano. Al pub, durante una chiacchierata fugace.

Le variabili da considerare in una salita funzionano sia in montagna che nella vita.

Il signore anziano non ha un nome, non ci siamo mai presentati. E allora non lo invento nemmeno, un nome. Il signore anziano ha una lunga barba bianca, un po' ingiallita attorno alla bocca. Nicotina e whisky.

Un cappello di feltro consunto. Lo tiene in testa anche se se ne sta comodamente seduto al bancone del pub.

Ci incrociamo così, quasi di sfuggita, a quel bancone. Sono entrato di fretta, fuori piove e tira vento. In più fa freddo. È febbraio e fa freddo, in Scozia.

Sono entrato di fretta per cercare riparo e qualcosa di caldo da bere, per scaldarmi. La salita, per ora può aspettare. Il pub è costruito a valle, a ridosso di una montagna, non molto alta, non una salita così difficile.

Il programma è lasciare la macchina là, al parcheggio del pub, bere qualcosa, scaldarsi un po' e poi partire.

Devo arrivare in cima, c’è una cosa che devo vedere da lassù.

 

Il vecchio mi guarda, si capisce che non sono di zona. Un po' sorpreso, forse anche un po' infastidito dalla mia presenza “turistica”, mi fa un cenno con la testa per richiamare l’attenzione. Quel cenno mi distrae e, invece di ordinare il mio solito black coffee, gli faccio un cenno pure io.

Vestito come sono, capisce subito. Con secco accento della zona mi chiede se voglio andare su.

Intende la montagna. Certo, sono qui apposta.

“First time in Glencoe?”. Me lo chiede con un mezzo sorriso sarcastico.

“Aye!”. Rispondo cercando di usare una flessione quanto più simile alla sua. Ma col gaelico non vado oltre i saluti.

Mi spiega, con velato sarcasmo, che pioggia e vento sono, in qualche modo, il mio benvenuto nella valle.

 

Prima di salire, mi dice, valuta queste tre cose.

Le variabili della salita.

La prima: la fatica che sei disposto a sopportare per arrivare in cima.

La seconda: come sarà la vista una volta arrivato.

Poi si ferma e si fa serio. Lo incalzo, ha detto che erano tre.

Mi guarda con tutti gli anni che si porta addosso. Sospira.

La terza: l’altezza di un eventuale caduta.

 

C’ho messo un po' a capire che andare su in montagna e vivere, anche se in pianura, sono un po' la stessa cosa. Si fa un gran fatica ma la devi tenere, in qualche modo, dentro.

Se poi hai anche la fortuna di arrivare in cima, beh, che vista da lassù!

Ma fai sempre attenzione alle cadute. Giudica l’altezza e se ci riesci, cerca sempre di cadere in piedi.

 

 

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