23 Marzo 2015.
Mi sveglio che fuori è ancora buio. Il mio corpo esegue,
quasi meccanicamente, azioni routinarie per scrollare via il torpore del sonno.
Con passo trascinato raggiungo il soggiorno. La vedo. C’è una grossa valigia
marrone chiaro, imbottita quasi voglia scoppiare da un momento all’altro. La
vedo ma non la guardo. Passo oltre. In cucina, la mia famiglia è già sveglia.
Silenzio e profumo di caffè.
Un paio di sorrisi appena accennati sostituiscono i classici
“buongiorno, dormito bene?”.
Di norma, nella mia famiglia è raro trovarsi a fare
colazione tutti insieme. E’ ancora più raro che alle sei del mattino ci sia
solo il profumo del caffè a condire l’aria. Ho sempre bevuto il caffè della
colazione annusando il profumo di qualche sugo o di qualche arrosto che mio
padre iniziava a preparare ad un orario che, ad oggi, non mi è del tutto noto.
Quella mattina, invece, era diverso.
Famiglia tutta sveglia e riunita, tavola apparecchiata e
caffè nella moka.
“Allora parti?”.
Penso sia stata mia sorella la prima col coraggio di rompere
quella staticità quasi imbarazzante.
“Si parto!”.
Non è stata la mia determinazione a guidarmi in quella
risposta secca, bensì profonda inconsapevolezza. In fondo, sì, parto ma non
vado lontano. Un’ora di volo, scalo a Bruxelles, un’altra ora di volo, scendo
a Londra, treno, un’altra ora e ci sono. Venezia- Bruxelles- Londra- Rugby. Cosa
vuoi che sia. Arrivo per pranzo e vi chiamo.
A volte è proprio vero, da ignoranti, a non sapere le cose,
si vive meglio.
Zaino preso, valigia in macchina, passaporto c’è. Posso
partire ma ora il passaggio più importante.
Mia sorella la abbraccio forte ma non posso far trasparire
troppo. Devo apparirle forte e deciso, l’esempio che avrei voluto essere per
lei.
Mi giro verso mia madre, una lacrima le scende lungo la
guancia destra. La stringo forte, le do un bacio.
“Dai non fare così, tanto stasera ci vediamo”.
Sdrammatizzo alludendo al fatto che nell’era digitale basta
uno “swipe up” per rispondere ad una “video-call” ed il gioco è fatto. Le
distanze sono annullate. Quasi non esistono più. Ma questa è la favola che mi
stavo piano piano costruendo nella mia testa. Gli esperti lo definirebbero come
un “meccanismo di coping”.
E’ autopreservazione allo stato puro. La verità, infatti, è
che dentro di me montavano due grosse sensazioni, paura e inconsapevolezza, e
non era quello il momento di lasciarle libere di agire.
Mio padre è già in macchina. Mi accompagna lui in aeroporto.
Andiamo.
Il tratto di autostrada che collega Padova all’aeroporto di
Venezia non offre panorami emozionanti né spunti di riflessione profonda. E’
solo grezzo asfalto dritto. O per lo meno, così la vedo quel giorno.
All’uscita dell’autostrada si inforca una tangenziale dritta
(anche quella, siamo in pianura) che porta ad una grande rotonda e da lì si
vede il cartello “Marco Polo”.
In fondo, lui è andato in Cina e all’epoca non si volava.
Vuoi che io non riesca ad andare in Inghilterra?
Con mio padre non sono riuscito a mascherare nulla. Mi
abbandono al suo abbraccio senza battute, senza parole di troppo che debbano
per forza colmare il silenzio. Ci siamo salutati così, all’ingresso dell’aeroporto.
Un senso unico fatto di luci, negozi, promozioni “tax-free”
che spezza di netto la malinconia che sento addosso. Forse, i terminal, li
costruiscono così proprio per questa ragione. Per aiutare quelli che partono.
Per togliere quella malinconia che contraddistingue ogni partenza.
Venezia- Bruxelles- Londra è una tratta frenetica ed
impegnativa. In Belgio devi recuperare il bagaglio e correre dalla parte
opposta del terminal per salire sul volo successivo. Devi calcolare la coda ai controlli
per la sicurezza, stivare di nuovo la valigia e trovare un bagno libero. Non c’è
tempo per le grandi riflessioni.
A Londra poi, devi recuperare il bagaglio, metterti in fila
per il controllo documenti, e trovare un treno che si fermi a Rugby.
A questo punto del viaggio, di Rugby conosco due cose: è più
a nord di Londra e sì, lo sport è stato inventato proprio lì. In realtà ho
anche una terza certezza. Alla stazione di Rugby ci dovrebbe essere un
incaricato della compagnia che mi ha assunto che mi aspetta.
Trovo un posto sul primo treno che va a Birmingham, ferma
anche a Rugby. Perfetto.
Lato finestrino, musica nelle orecchie e per la prima volta
nella giornata mi sento quasi sereno. Sembra che la malinconia di prima non ce
l’abbia fatta ad attraversare la Manica. Guardo fuori dal finestrino e questa
volta sì che il panorama è diverso e quasi ispira a pensieri profondi,
riflessioni.
No. Controllo biglietto. Capisco solo “Ticket not valid” per
via del marcato accento del controllore.
La direzione è quella giusta ma ho il biglietto di una compagnia
di trasporti diversa (questo l’ho saputo dopo). In breve, ho acquistato il biglietto
più economico per percorrere la tratta “lenta” ma sono salito su un treno ad
alta velocità non proprio economico.
“Fine, fine”. Incalza il controllore. Io mi convinco che non
ci siano problemi. Ma la lingua inglese porta con sé la stessa sottile ironia
che caratterizza il popolo d’oltre Manica. Ironicamente, perché solo così si
può spiegare, il vocabolo che indica un concetto di benessere è lo stesso usato
per parlare di una “multa”.
Capisco l’inglese, parlo un po’ di inglese ma decido di adottare
una strategia diversa. Alla sottile ironia britannica rispondo con colorita, e
ben più calorosa, malizia mediterranea. Mi cimento così in un’interpretazione
che sfiora il grottesco. Va in scena uno dei miei personaggi preferiti: il
turista straniero sbadato. Fingo platealmente. A braccio, stendo un’arringa
raffazzonata. Mi salvo. Il controllore si stringe nelle spalle, mi congeda
educatamente e se ne va.
“Next stop, Rugby”.
Ci sono, devo scendere.
La stazione è piccola, c’è pochissima gente. All’uscita vedo
una bellissima scultura moderna a forma di pallone ovale, non ho dubbi di
essere nel posto giusto. Scatto un “selfie” commemorativo. Tiro un gran
sospiro. Ce l’ho fatta, sono arrivato.
A quasi milleseicento chilometri da casa ora devo solo
trovare l’incaricato dell’azienda che mi accompagnerà alla meta finale.
Non nascondo che il cartello con scritto “Mr. Alfieri” mi
abbia fatto sentire un po’ importante.
Lo tiene stretto un signore dai capelli corti e grigi. Alto
e snello. In divisa verde. Mi sorride.
Si presenta subito come Igor, responsabile della
manutenzione. Igor è polacco, straniero come me.
Il suo inglese non è perfetto e questo mi mette subito a mio
agio.
Mi fa salire su di un Audi fiammante e precisa subito essere
sua. Fiero.
Precisa anche che, sì, siamo a Rugby, ma lui è tifoso del
Manchester United quindi si parla di calcio.
In cinque minuti arriviamo alla sede della compagnia per la
quale avrei iniziato a lavorare ma di questo avrò modo di raccontarvene più
avanti. Per ora mi fermo qui.
Nel raccontare questo primo episodio ho volutamente
tralasciato due dettagli. Sono partito dall’Italia lasciando non solo la mia
famiglia ma anche una fidanzata ed un gruppo ristretto ma affiatato di amici,
compagni di studi e di vita. Non li ho inseriti poiché, per la loro importanza,
meritano un capitolo a loro dedicato.
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