Per noi italiani, il cibo e l’arte gastronomica rivestono un
ruolo fondamentale nella vita quotidiana. Spesso, mentre mi trovavo all’estero,
mi sono confrontato su questo tema con amici e connazionali.
La tesi, concreta e ricorrente, era quasi sempre la stessa:
in Inghilterra si mangia male. Anche io,
inizialmente, la pensavo così. Non riuscivo a reperire gli ingredienti giusti e,
generalmente, tutto aveva un gusto piuttosto scialbo. Mi ostinavo a voler ritrovare
i gusti di casa pur trovandomi lontano.
Una delle questioni più difficile da “digerire” ruotava
attorno al concetto di “colazione”.
Per noi italiani è quasi un imperativo categorico: caffè,
corto, intenso, accompagnato con una deliziosa brioche, che noi chiamiamo
erroneamente “pasta” quasi a non voler dare, ai francesi, detentori del
primato, quella soddisfazione in più.
Alcuni di noi preferiscono l’altrettanto valido cappuccino,
sempre abbinato a qualcosa di dolce.
Anche per me valeva questa combinazione: caffè, corto e
amaro e al massimo una brioches alla marmellata. La mia idea di colazione
perfetta. Finché non ho scoperto la colazione inglese.
La vera “English breakfast”.
Ottobre 2015.
Percorro con la mia auto la A426, Rugby road, in direzione
sud. Verso Dunchurch.
E’ un piccolo paesino, oggi una frazione, quasi un
quartiere, ai margini della zona residenziale di Rugby.
E’ un incrocio di strade. Se si prosegue verso sud, ci sono
solo il lago e la campagna aperta.
E’ un piccolo paesino, ma è carico di storia.
A quell’incrocio c’è una piccola piazzetta. In quella
piazzetta, una piccola chiesa in stile gotico ed un cottage. Attaccata alla
parete del cottage è appesa una targa. Su quella targa, con parole che a me
appaiono solenni ogni volta che le leggo, si evoca un nome: Guy Fawkes. E’
proprio in quel cottage che si tenevano le sue riunioni segrete. Questo, a me,
ha sempre un po’ emozionato.
A quell’incrocio di strade, in quell’incrocio di storie, si
trova il “The Nook at the square”. Dovrei dire “si trovava” perché a cercarlo
oggi, quel luogo, non c’è più. Ha chiuso qualche anno fa ma la storia è mia e a
me piace pensare che sia ancora lì. Così come lo ricordo io.
Al “The Nook” quella mattina ci arrivo un po’ per caso.
Un’amica è venuta a farmi visita dall’Italia e vuole provare
a tutti i costi la vera colazione inglese.
Ho cercato su internet e mi è sembrato il più autentico.
Da fuori, oltre l’insegna, si vede solo un portoncino nero.
Sembra più la casa di qualche anziano del posto.
Dentro è tutto in legno. Dal pavimento all’arredamento.
Ordiniamo due colazioni complete “full english beakfast” da
accompagnare all’immancabile caffè americano, al quale mi sto lentamente
abituando.
“Tu sai cos’è il Black Pudding?”.
La domanda della mia amica mi trova spiazzato. Non ne so
molto, la classica colazione inglese prevede le uova, la pancetta, i fagioli. A
questo punto della mia permanenza in Inghilterra, quello che so è poco più di
quello che si vede nei film o nelle serie tv. Ma non posso lasciar correre
così.
“E’ una sorpresa, sono sicuro che ti piacerà”.
Le chiedo anche di non cercare nessuna informazione su
internet, per rendere l’esperienza più autentica. Ma quella è poco meno di una
supplica che le faccio. Dentro di me, quel nome, “Black Pudding”, suona male.
Come qualcosa che preferisco non indagare. Sarà l'aggettivo.
Arrivano i piatti, sono enormi e carichi di cibo.
Ci sono le uova, la pancetta e i fagioli, come previsto. Ma
noto anche qualcos’altro, di cui ignoravo, fino a quel punto, l’esistenza.
Ho così modo di assaggiare per la prima volta anche gli “Hash
browns”, tortini fritti di patate e cipolle.
Inclusi nella colazione trovo anche una salsiccia alla
piastra, il cui impasto è totalmente diverso da quelle a cui ero abituato, e
dei funghi trifolati. L’abbinamento è ottimo, se non fosse per l’orario. Mai
nella vita mi ero ritrovato a mangiare tutte quelle pietanze alle otto del
mattino!
Lascio per ultimo il Black Pudding, una fetta spessa almeno
un centimetro di un impasto nero al cui interno si intuisce che ci sia dell’altro.
Non meglio identificabile.
Sono perplesso ma non posso tirarmi indietro.
Ne assaggio un pezzetto e osservo la mia amica fare lo
stesso. Esplosione di dolcezza in bocca. Il gusto è buonissimo. L’impasto tende
a seccare la un po’ la bocca, però mi piace.
“Fammi finire, poi le chiedi cos’è”.
Con la testa faccio cenno in direzione della cameriera che
ci osserva da dietro il bancone.
Con un inglese condito di forte accento della zona ci spiega
che è sangue di maiale mescolato con interiora di animale e cereali. A seconda
della zona dell’Inghilterra in cui ci trova, può essere servito abbinato alla
colazione.
La rivelazione mi lascia stupito. Sul cibo ho sempre avuto
molti preconcetti ma il mio percorso di adattamento deve passare, per forza,
anche da qui. Vivere in un’altra nazione vuol dire anche questo, imparare a
conoscere una cultura diversa e saper convivere. La cucina, per noi italiani, è
cultura tanto quanto lo sono i libri, la musica e l’arte in generale. Posso
partire dalla questo, per integrarmi un po’ di più.
In questo capitolo ho deciso di parlare di cucina ed usare
il cibo come veicolo di integrazione tra culture differenti. Troppo spesso ho
sentito dire che in Inghilterra si mangia male. Questo è vero, solo in parte.
Si mangia male se non sai dove andare. Nei miei anni all’estero ho avuto la
fortuna di esplorare un po’ il territorio che mi circondava. Di perdermi, a volte,
e trovare sempre qualche piacevole sorpresa collegata in qualche modo ai cibi
tipici. Col tempo, ho anche contagiato un po’ chi mi è stato vicino.
In quasi sette anni, se uno vuole, si possono conoscere
molte cose di un luogo.
Senza presunzione, oggi, posso dire di aver conosciuto
Rugby, i suoi abitanti e le loro abitudini.
In quasi sette anni, ho imparato a conoscere anche il
territorio circostante.
Forse sono partito troppo presto, senza ben comprendere le
flessioni più sottili della cultura di quei luoghi, ma di una cosa sono certo:
per una buona “Steak and Ale Pie” ci sono solo due posti dove poter andare.
La “Steak and Ale Pie” è un piatto semplice ma basa la sua
forza sulla qualità degli ingredienti. Spezzatino di manzo e verdure, bolliti
nella birra scura. Il tutto servito in un tegame ricoperto di pasta sfoglia.
Anche per questo piatto ne esistono diverse varianti, a seconda della regione. La
cosa più importante, comunque, è affogare il tutto con abbondante Gravy, una
riduzione ottenuta dai succhi di cottura della carne.
Come vi ho già detto, per mangiare una buona “Steak and Ale
Pie”, avete due scelte.
“The Old Lion” a Harborough Magna, nella zona nord-ovest di
Rugby. Il vecchio pub è situato fuori dal contesto cittadino. Dentro si può
respirare la stessa accoglienza che si trova a casa della nonna.
C’è anche un angolo, sulla destra, appena entrati, che di
fatto è un salotto. C’è un grande camino, acceso nei mesi più freddi. Poltrone
tutte attorno ed uno scaffale pieno di libri, rifugio per avventori solitari
che cercano tranquillità e comprensione.
Sulla sinistra, invece, si apre la sala. Modesta ma curata.
Il proprietario, un greco emigrato, ci tiene molto all’ordine ad alla pulizia.
L’ho conosciuto. Un gran lavoratore. Un giorno mi ha sentito parlare italiano e
si è subito presentato. Ha lavorato anche in Italia, conosce la lingua anche se
la cadenza è un misto di greco ed inglese. Ci capiamo lo stesso.
Frequentando il suo locale, scopro che ha insegnato al cuoco
inglese come preparare la salsa Tsatsiki. Ed è qualcosa di eccezionale. Quando
ceno da loro, ordino sempre la salsa tipica greca come antipasto e la “Pie”
inglese come “main course”. Loro usano la carne del macellaio del paese. Ortaggi
di zona, come diciamo noi “a km zero”. Tutto ha una dimensione “domestica” all’Old
Lion. La Pie, quando arriva in tavola, si porta dietro un profumo che riempie
quasi l’intera sala. Il gravy è sempre servito a parte, in piccolo contenitore
in ceramica. Cola denso sopra il piatto e si capisce non è di quelli istantanei
acquistati in negozio.
Quando penso all’Old Lion e a Dimitros, il proprietario, mi
rendo conto di quanto sia facile accorciare le distanze che separano popoli e
culture differenti. A lui, in fondo, è bastata la cucina di un pub.
L’altro luogo dove poter mangiare un’ottima Pie è il “Boat
Inn”.
Il pub è costruito sulla riva di un canale e per
raggiungerlo, da Rugby, bisogna fare un po’ di strada in più, verso sud, in
direzione di Stockton. D’estate, se il meteo lo permette, si può mangiare
direttamente sulla riva del canale, ammirando le barche che lentamente
oltrepassano un sistema di chiuse. Lentamente salgono, risalendo l’affluente
che porta all’Avon.
Qui, il punto di forza, sono le patate servite insieme alla
Pie, che già di per sé è ottima.
Tagliate spesse, grezze, fritte direttamente con la buccia. Il
contorno degno di un piatto che mi ha fatto innamorare della cucina inglese.
La cittadina di Rugby si trova vicino al confine della
contea di Warwick. Bastano, infatti, pochi minuti in auto per raggiungere la
vicina contea di Northampton. Per farlo, è sufficiente seguire la A45. Una
strada dritta che collega Rugby a Daventry e taglia di netto la campagna. Non
vi porto a Daventry, anche perché non c’è molto da vedere. Ci fermiamo a
Braunston, poco prima. Il paesino si vede anche dalla strada principale, sorge
sopra una collina. Si vede prima il campanile del paese, si gira a sinistra,
fuori dalla via main street, si risale la collina e si è subito arrivati.
Quel giorno sono in macchina con mio papà, che è venuto a
trovarmi. Conosco il mio vecchio, so che è un’ottima forchetta. Amante della
buona cucina. Da buon abruzzese ama i gusti intensi e decisi. So io come
stupirlo.
La sera prima del suo arrivo ho chiamato la signora del “The
Old Pleugh”, a Braunston appunto.
La proprietaria del pub impasta a mano degli ottimi “faggots”,
polpette di carne ottenute dalla macinazione delle interiora del maiale. Lei,
la signora del “The Old Pleugh”, le serve immerse per metà nella salsa gravy con
purè di patate come contorno. Vista l’età, non riesce a prepararne troppe e
così, per mangiarle, bisogna ordinarle in anticipo.
Ci accomodiamo al tavolo e sembra di essere a casa. Anche
qui il caminetto e l’arredo in legno, un po’ consunto, restituiscono l’accoglienza
semplice di una qualsiasi abitazione privata. Il bancone del pub taglia in due
l’ambiente interno. Da un lato si mangia, dall’altro si beve e si gioca a
freccette. Ho sempre ritenuto peculiare la scelta di utilizzare due ingressi
distinti, a seconda dello scopo della visita.
All’arrivo dei piatti, colgo perplessità sul volto di mio
papà. Lo esorto con un mezzo sorriso, consapevole che dentro quel piato possa
ritrovare sapori noti fino a quel punto sotto forma di altre alchimie.
Al primo assaggio lo vedo sciogliersi. Ho fatto centro.
Per riuscire a finire l’intera porzione ci vogliono del
tempo ed almeno un paio di pinte a testa. Ma riusciamo nell’impresa. Sazi e
felici quasi ci stendiamo lungo le panca sulla quale siamo seduti.
“Non è finita”.
Sgrana gli occhi per farmi capire che non c’è spazio per mangiare
altro. Non sento ragioni; la signora, oltre ai faggots, prepara una cheesecake
casereccia alla quale non si può resistere. La base del dolce è ottenuta con
burro fuso mischiato con biscotti al burro. Un tripudio di acidi grassi. A
contrasto, ci versa sopra una quantità forse eccessiva di confettura ma il
connubio va assaggiato almeno una volta.
Ci alziamo esausti e con un pericoloso livello glicemico nel
sangue. Ma siamo insieme e siamo felici. Conta solo questo. Uniti attorno ad un
tavolo, quasi fosse quello di casa.
Spesso è proprio la cucina semplice, povera, ad essere la
più gustosa. Quel “confort food” che ci restituisce semplice serenità. Altre
volte, invece, si ha bisogno di qualcosa di un poco più complesso ed elaborato
per soddisfare il proprio palato e ritrovare la gioia.
Il “White Swan” a Lutterworth l’ho scoperto per caso, mentre
cercavo qualcosa di più raffinato per un’occasione importante. Per imprimere
meglio l’importanza che affido a questo luogo, devo partire dall’inizio. Più
precisamente da una data. Il 31 Maggio 2018. Quel giorno decido che, per
celebrare il giorno in cui ci siamo conosciuti, avrei portato la mia ragazza a
cena in un locale diverso dal solito. Ero in cerca di qualcosa di particolare,
che potesse in qualche modo stupire.
A corto di idee e stretto con i tempi, affido la mia ricerca
ad internet. Quello che mi restituisce l’algoritmo sembra essere un ristorante
intimo, fuori mano. Prenoto senza indagare oltre e spero vada tutto bene. Non
trovo pubblicità di questo locale e la cosa, anziché insospettirmi, iniziava a
crearmi sempre più curiosità.
Quel giorno, sempre quel 31 Maggio, accade un’altra cosa. La
mattina, parto di buon ora per raggiungere Northampton. Sono diversi giorni in
realtà che faccio su e giù. Rugby- Northampton. Ho trovato una bella macchina,
quasi nuova, il prezzo è un po’ alto per me ma non voglio farmela scappare.
Pago l’intera somma in un colpo solo e scendo a Northampton
per firmare gli ultimi documenti.
Alla vigilia della cena mi ritrovo felicissimo sì, ma con il
conto in banca prosciugato. Faccio finta di non pensarci, in fondo mancano
pochi giorni al nuovo stipendio. Che sarà mai una cena fuori.
Quando l’ironia della sorte decide di accanirsi, con me lo
fa tutto in una volta.
La macchina nuova è mia, sì, l’ho appena acquistata. Ma non
è pronta per il ritiro.
Così mi ritrovo in bolletta, ancora a bordo della mia Polo
grigia. O per lo meno, di quel che resta della mia Polo grigia.
Cerco almeno di darmi un tono semi elegante con una giacca
indossata con disinvoltura. Spero basti a salvare le apparenze. Scendo dall’auto,
aspetto educatamente lei, poi mi dirigo per primo verso il locale, quasi a
voler rispettare un galateo improvvisato al momento.
Ricordo ancora la scena, come una fotografia su pellicola
stampata.
Porta d’ingresso, faretto in stile minimal sulla destra che
illumina una targhetta rossa.
La scritta “Michelin” non lascia spazio alle
interpretazioni.
L’esperienza culinaria che viviamo è travolgente. Sapori,
quasi sconosciuti, sorprendono per complessità ed originalità. L’atmosfera è
accogliente, curata nei dettagli.
Il “White Swan” diventerà, col tempo, uno dei miei luoghi preferiti
per celebrare momenti particolari dal retrogusto un po’ raffinato.
Di tutti i luoghi
visti e di tutti i cibi assaggiati, uno in particolar modo è quello che più di
altri ha il potere di rievocare un intero viaggio. Un intera nazione. Un cibo
che porta con se l’essenza stessa del popolo che l’ha inventato. Non sarò
prolisso nel raccontare gli eventi che mi hanno portato in Scozia. Per il
nostro viaggio bastano poche, semplici, informazioni.
Un viaggio “on the road” di dodici giorni da Rugby fino alla
capitale delle Highlands scozzesi, Inverness. E ritorno. Una tappa diversa ogni
giorno. Ogni giorno un alloggio differente. Un viaggio alla scoperta della
Scozia, della sua culturà e quindi, anche dei sui cibi tipici.
Ripenso alla Scozia e non posso non pensare agli Haggis.
Un insaccato ripieno di interiora di pecora, mescolato
insieme ad aromi, grasso e farina. Ne ho incontrati, ed assaggiati, di diversi
tipi, a seconda della zona in cui mi trovassi. Arrivato a metà del mio viaggio
scozzese, ad Inverness, ne avevo contati almeno quattro tipi differenti. Ma
nessuno di loro poteva, in alcun modo, eguagliare quelli serviti al “Johnny
Foxes”. Il pub si trova oltre il ponte che sovrasta il fiume Ness. Un locale
storico in città. Gli Haggis del Johnny Foxes incarnano, a mio avviso, la vera
essenza del popolo scozzese. Tosti fuori, morbidi dentro. Al Johnny Foxes li
servono fritti. Con alcune salse speziate per accompagnare il gusto intenso e
deciso delle interiora. C’è un piccolo trucco che ho imparato da un signore
scozzese per riuscire a mangiarli e non pentirsene durante la notte. Gli Haggis
vanno accompagnati col whiskey, rigorosamente single malt, rigorosamente
scozzese. Un consiglio, però, lo aggiungo io: mai bere un numero di whiskey
superiore al numero di Haggis mangiati. Il mattino successivo ve ne pentirete
ugualmente, ma per altri motivi.
L’accoppiata
Haggis-whiskey è la perfetta sintesi culinaria di una nazione intera. L’equivalente
della pasta pomodoro e basilico per noi italiani. (Paragone a puro scopo
didattico).
Continuerei con immenso piacere a scrivere della Scozia,
delle sue tradizioni radicate, della tenacia di un popolo orgoglioso. Dei suoi
luoghi magici ed iconici. Purtroppo, per ora, mi fermerò qui, con la memoria di
un piatto iconico.
Parte della mia famiglia, il ramo di mia madre, è di origine
veneta. Nella tradizione culinaria della regione, il baccalà ricopre, senza
dubbio, un ruolo molto importante. Eppure, il miglior baccalà, non l’ho
mangiato in Veneto. L’affermazione, per alcuni, potrà sembrare irriverente,
quasi offensiva. Eppure è vera.
C’è un pub, a Newnham, dove si può ancora trovare il baccalà
più buono.
“Maria’s Kitchen” da fuori assomiglia ad un pub inglese come
tanti altri. Dentro, la storia è diversa. La signora Maria, infatti, non è
inglese e non propone un menù tradizionale. La signora Maria, e la sua famiglia,
sono portoghesi. Nella cucina tipica portoghese, il baccalà, ha la stessa
importanza che riveste nella tradizione culinaria veneta. Anche loro lo
preparano in modi diversi ma, se vi capita di passare dalla signora Maria,
ordinate “Bacalhau com natas”. Il piatto è di terracotta, baccalà sotto, patate
e cipolle sopra. Unito con panna e tutto cotto al forno. Una vera specialità.
A questo punto del viaggio attraverso i sapori, una cosa
appare evidente. Tutto è più buono se mangiato nel suo luogo autentico e
preparato da qualcuno che vuole trasmetterti la propria tradizione. Anche il
più banale take-away asiatico può rivelare piacevoli sorprese se, in cucina,
oltre ai fornelli, brucia la fiamma della passione culinaria.
Durante la mia permanenza all’estero, in diverse occasioni,
ho ospitato mia sorella. Spesso, nelle pause dagli studi, veniva a trovarmi per
passare del tempo insieme. Non faceva in tempo, quasi, a scendere dall’aereo
che, dopo l’immancabile abbraccio, mi chiedeva se avremmo potuto ordinare qualcosa
da “J’s”.
Un take-away che proponeva esclusivamente cucina cinese,
preparata secondo tradizione. Il loro pollo in agrodolce lo ricordiamo ancora
con un sorriso. Ancora una volta, il forte potere della cucina, capace di
accorciare distanze e neutralizzare le differenze culturali.
Per ricordarci, che in fondo, siamo tutti ugualmente
ghiotti, attorno a un tavolo ben apparecchiato.
Dedicato a Sofia, alle nostre risate insieme in terra straniera,
alle “zollette alle erbette”, alle “ribs” di Portsmouth
e la birra versata a Birmingham.
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