I ricordi, dapprima fissi, indelebili nella mente, tendono
comunque a sbiadire.
Le foto, specialmente quelle digitali, rimangono.
La fotografia ha il potere di fermare il tempo, l’attimo in
cui viene scattata, fissarlo e renderlo, in qualche modo, eterno.
Anni fa, quando ancora mi stavo avvicinando alla fotografia, lessi da qualche parte la citazione di un famoso fotografo e recitava più o meno così:”
Il giusto scatto è quello che non devi spiegare a nessuno”. In qualche modo parla da solo. Si spiega senza le parole.
Mi sono sempre dovuto sforzare per comprenderla. Non ha mai avuto senso, per me.
È vero, una fotografia può impressionare, ad un primo impatto. Può piacere o non piacere.
Ma porta con sé ricordi, emozioni…storie…che vanno raccontate.
Un buon scatto, secondo me, ha sempre una buona storia
dietro. Ed è sempre una buona storia che merita di essere condivisa.
L’idea di un viaggio “on the road” l’avevo già da un po'. Mi
serviva solamente un pretesto per partire ed un momento buono per farlo. Quella
leggera spinta in più ad abbandonare i comfort della routine quotidiana e
mettesi in macchina per ore, verso una meta sconosciuta.
A volte, senza nemmeno cercare troppo, è la vita a metterti
di fronte pretesti e momenti buoni. Tu non devi fare altro che lasciarti
andare.
Così, senza pianificare troppo nel dettaglio, mi sono ritrovato
in auto, diretto verso nord. Autostrada M6. Circa quattrocento kilometri per
raggiungere quello che una volta era considerato il confine del mondo. Il limite
oltre il quale, l’impero romano, non volle mai spingersi. Là dove un tempo
sorgeva il celebre Vallo di Adriano, oggi non restano che brevi porzioni di
struttura e targhe commemorative.
Eppure, per un momento, ho provato ad immaginare cosa poteva
provare un mio antenato legionario, a sentirsi così lontano da casa. Nella mia
personale suggestione storica, sono convinto che anche lui si sia concesso un
attimo per pensare alla sua famiglia, agli amici lasciati in Italia, con la
promessa che sarebbe tornato. Prima o poi.
Gretna Green è ufficialmente il primo paese scozzese che si incontra arrivando da sud sulla costa ovest dell’Inghilterra. Tecnicamente sorge sul confine.
Ed è famoso per una singolare ragione: i matrimoni.
Per un vecchio editto inglese, i matrimoni sotto i ventuno
anni di età potevano essere impediti, qualora un genitore si fosse opposto all’unione.
Così un giorno, il fabbro del paese, che aveva la bottega al
di là del confine inglese, e per il quale non vigeva il medesimo editto, si
mise a celebrare. Lui non giudicava, non discriminava. Si accontentava di due
testimoni pronti a giurare in nome dell’amore.
Oggi la bottega è ancora al suo posto e, seppur mostrandosi
sotto una veste più commerciale, conserva ancora un fascino romantico, che
perdura da quasi trecento anni.
Come primo giorno di viaggio decido che le ore in macchina,
il confine ed il paesino caratteristico possono bastare. Così, di comune
accordo con la mia compagna di viaggio, si stabilisce quella che per il resto
del viaggio sarà la consuetudine serale. Si scegli un pub, si ordina da bere e
si decide la sistemazione per passare la notte. La regola non scritta, dettata
più che altro dalle risorse economiche, è quella di non scegliere mai un hotel.
Questo sistema mi porterà a passare la notte in luoghi…pittoreschi.
Come prima sistemazione si sceglie di dormire a casa di due
anziani che affittano una stanza del loro cottage.
L’ospitalità, fin da subito, mette quasi in imbarazzo. Wilma,
la padrona di casa, è la più espansiva. Mi spiega che il figlio, ormai grande,
non vive più nel piccolo paesino di confine. La casa è grande, la pensione un po'
meno. Per arrotondare affittano la camera in più. Questione di attimi, caffe in
mano, e siamo seduti con loro in salotto. La Wilma ne vuole sapere di più, mi
spiega che siamo i primi italiani che si fermano da loro. Sorpresa e curiosa,
la Wilma.
“Venezia?”.
“Si, Venezia è davvero costruita sull’acqua”. Non so dire “palafitte”
in inglese quindi, ancora oggi, per colpa mia, la Wilma crede che a Venezia
tutto galleggi a pelo d’acqua.
“E il Colosseo?”.
“Quello ancora non l’hanno ultimato”. Sorride, la Wilma, che
sembra abbia il singhiozzo.
John, il marito, è di compagnia ma rimane sulle sue. Forte
accento, parla poco. Io capisco meno del poco che dice. È stato in Italia, va
bene, ma tanti anni fa. Montecassino, questo lo capisco bene in mezzo alla
frase.
Allora capisco anche un'altra cosa. Il John e la Wilma hanno
due idee diverse dell’Italia e di noi italiani. Due visioni diametralmente
opposte. Entrambe giuste, entrambe sbagliate. Entrambe necessarie.
La sveglia la mattina ha il profumo di salsiccia arrostita e
hash browns fritti. Faccio il bis anche dei fagioli.
Il viaggio che mi aspetta è lungo, si va a nord. Nelle
Highlands.
Altro luogo, altra foto. Un’altra storia. Allora se è vero che una foto va raccontata, in questa foto è racchiusa l’essenza e il significato che questo luogo ha per me.
Lascio Glasgow alle spalle e il panorama cambia.
Lande distese, sferzate
dal vento e dalla pioggia, che si intrecciano con solchi lunghi e stretti del
terreno che qui chiamano “Lochs”, laghi. Basta città, la civiltà è alle spalle,
si viaggia verso nord attraversando la Natura. Si viaggia sulla A82, si tocca
Loch Lomond giusto il tempo di una foto e per sentire se l’acqua è davvero
fredda. Sì, è fredda sia l’acqua del lago che l’aria che tira. Torna in
macchina, si riparte. Ancora su, Black Mount è sulla sinistra e si sale ancora.
Qui la terra cambia ancora. Non solo nell’aspetto ma anche nel nome. La
chiamano “moor”, brughiera. A vedere un paesaggio così, vien voglia di scendere
dalla macchina. Prendi il primo sentiero e ti incammini contro vento e pioggia
che tirano in direzione opposta. Se non stai attento, metti male un piede e sei
sotto. La brughiera è instabile, non è compatta. Sotto c’è acqua. E allora pare
che la terra sia viva. Il passo cede nel terreno e l’acqua gelida zampilla da
sotto. È viva.
Nel viaggio si accumulano stanchezza ed adrenalina. L’una
vuole contrastare l’altra. Il buon viaggiatore lo sente quando è ora di fermarsi
per ristabilire i propri equilibri interiori. Svolta a destra, si lascia la
strada principale. È un sentiero sterrato ma il cartello sembrava chiaro.
Eccolo, è qua. “Clachaig Inn”. Parcheggia pure, ci fermiamo un attimo.
Ora la storia si intreccia con l’episodio “Strani incontri” al
quale vi rimando per sapere come è andata davvero dentro quella locanda, vicino
Glencoe. Qui la strada da fare è ancora molta. Rimettiamoci in macchina e verso
sera si arriva a Fort Williams.
Il castello di Urquhart, o meglio quel che ne rimane, sorge sulla sponda nord-occidentale del Loch Ness, il lago formato appunto dall’omonimo fiume.
In passato il castello ha giocato un ruolo strategico durante
le guerre di indipendenza scozzesi e, se oggi lo vediamo così, e proprio per
questa ragione. Pur di non farlo cadere in mano nemica, i suoi occupanti, ritrovatisi
alle strette, decisero di sabotarlo dall’interno e distruggerlo con le proprie
mani.
Il trascorso di questo luogo mi ha affascinato sin dal primo
momento. Oggi rimane, a mio avviso, un altro splendido esempio della tenacia di
un popolo che, pur di mantenersi fedele ai propri principi, ha sempre saputo resistere
e rialzarsi.
A questo punto del racconto, sono in viaggio da circa cinque
giorni e mi ritrovo ormai rapito dall’atmosfera delle Highlands. Tutto ciò che
mi circonda spinge con forza per entrare, la suggestione è totale.
Mi spingo un po’ più a nord, seguendo il fiume, e verso sera
si arriva a Inverness.
La città è nota per essere considerata la “capitale” delle Highlands.
Unico vero centro abitato, provvisto di comfort e servizi, in quelle terre
brulle e selvagge.
Per restare fedele alla tradizione del viaggio, scelgo di
passare la notte a casa di una famiglia del posto. Marito, moglie e due figli
piccoli. Arrivo da loro che fuori è già buio. Scarico faticosamente gli zaini
dall’auto. In uno ho messo il necessario per l’igiene e qualche vestito pulito,
nell’altro conservo l’attrezzatura fotografica. I due piccoli mi osservano in
silenzio da dietro la finestra del soggiorno. Me ne accorgo con la coda dell’occhio.
Spariscono dietro le tende. Inizia così una implicita partita a nascondino.
Vogliono guardare, senza farsi vedere.
La madre mi accoglie in casa come se fossi un lontano cugino
tornato a farle visita. Cordiali ed ospitali, tutti.
Mi mostra la stanza in cima alle scale, piccola ed
essenziale. In fin dei conti il prezzo è onesto e l’adattamento è parte integrante
del viaggio.
Alla vista del letto, cado in tentazione e mi ci lascio
cadere sopra. Stremato.
Un rumore improvviso, uno scalpiccio forsennato, mi suggerisce
che non è ancora il momento di riposare.
Fermo il respiro per ascoltare meglio. Il rumore di passi si
è fermato, davanti alla camera.
La luce filtra appena da sotto la porta e riconosco le ombre
di quattro piedini. Fermi, immobili nel corridoio.
Cerco di sgattaiolare fuori dal letto senza fare troppo
rumore e mi preparo all’imbosca.
Apro lentamente la porta e i due piccoletti mi osservano dal
basso. Inizia una breve ma intensa battaglia di boccacce e sberleffi che si
conclude con la ritirata, tra le risate, delle truppe scozzesi, vinte ma
divertite.
Non ho tempo per affezionarmi a quelle due simpatiche
canaglie.
L’indomani il mio viaggio prosegue per portarmi un po' più
in là.
La via del ritorno attraversa le Highlands dal lato est. Si passa per Perth, poi Stirling ed infine Edimburgo.
L’enorme castello sovrasta la città dall’alto e lo stile
gotico delle vie conferisce un’aurea del tutto particolare alla città. Mentre
passeggio provo meraviglia mista ad un’altra sensazione, che lì per lì, non mi
so spiegare.
È una strana sensazione, come se mancasse qualcosa.
La città è davvero bella come ci si aspetta. Lo è ance
Glasgow, anche se in maniera diversa. E così tute le altre città attraversate
durante il viaggio ma qualcosa non mi torna. A questo punto del viaggio mi
manca qualcosa. Ma cosa?
Ci ho messo un po' di tempo per capirlo.
Mi mancavano le Highlands. Quelle distese umide e fredde con
panorami così diversi da quelli a cui ero abituato io. Quella lingua,
affascinante ed incomprensibile all’orecchio straniero. Quei castelli carichi
di storia e significato, quasi mistico. Le leggende popolari ed il folklore
così radicato.
Dieci giorni non bastano per conoscere luoghi ed un popolo
dalla storia così complessa e travagliata.
Ma credo siano
sufficienti per innamorarsene.
Ho provato almeno altre due volte a ritornare nelle
Highlands ma, per un motivo o per un altro, non ci sono più riuscito. Poi la
vita, con i suoi incroci strani di persone e occasioni, ha permesso, in qualche
modo, di ricongiungermi con quei luoghi.
Ad oggi, infatti, possiedo due piccoli pezzi di terra nelle
Highlands scozzesi con il compito di preservarle intatte, così come sono. Di
proteggere flora e fauna dall’incidere incalzante della globalizzazione.
E anche se il titolo ad alcuni potrà suonare un po' strano,
Lord Nicola Alfieri di Glencoe, io me lo tengo stretto.
Perché, in fondo, è quello che mi rimane della Scozia.
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