Mi trovo in Inghilterra ormai da un paio di settimane. Ho
difficoltà a comprendere l’accento della regione in cui mi trovo ma, tutto
sommato, non va male. I colleghi a lavoro sembrano comprensivi o forse è solo
l’impostazione, quasi obbligatoria, della cultura britannica. Da noi passa con
il nome di “Politically correct”.
Quando non capisco, nel dubbio, annuisco e rispondo
affermativamente a qualsiasi richiesta. Tra i vari “Yes” dispensati con
leggerezza, concordo a partecipare ad un corso universitario. La proposta è
arrivata direttamente dalla manager della struttura, non avrei potuto tirarmi
indietro.
Siamo quattro infermieri, tre stranieri ed una ragazza
inglese. Mi convinco che possa diventare l’occasione per legare un po’ anche
fuori dal lavoro. L’appuntamento è per il prossimo giovedì.
Ci diamo appuntamento presso la struttura dove lavoriamo. Li
vedo per la prima volta senza una divisa addosso. L’effetto che provoca è
particolare. Ci guardiamo sorridenti, facciamo quasi fatica a riconoscerci.
Emily, l’infermiera inglese, è l’unica ad avere una
macchina. Guida lei.
Musica pop a tutto volume e guida sportiva lungo stradine di
campagna. Disprezzo per i limiti di velocità. L’atmosfera sembra quella di una
gita con gli amici di una vita. Non mi sembra vero di tornare all’Università e
per di più all’estero.
Il campus universitario è enorme, ne rimango stupito.
L’arredo interno è moderno, minimale, sui toni del blu. Ordinato e pulito. C’è
perfino una reception, sembra quella degli hotel. Ci presentiamo spiegando che
dobbiamo partecipare ad un corso di formazione. E’ la collega inglese a
parlare.
Ci consegnano un fascicolo con il materiale di studio e ci
indicano l’aula. L’organizzazione è quasi maniacale.
Sbircio il tema del giorno: “Death verification”. Rimango
perplesso e un po’ stupito.
Ma subito dopo inizio a capire. Si tratta di un corso
integrativo per infermieri. Alle
mansioni di base, accedendo a corsi supplementari, è possibile acquisire nuove
abilità da applicare poi nella pratica quotidiana. Per noi sarebbe stata la
possibilità di constatare un decesso. Sicuramente non una pratica comune,
tantomeno per un infermiere. In Italia sarebbe impensabile.
Il corso è relativamente semplice. Ci spiegano il protocollo
stabilito per ogni circostanza. Seguiamo tutti con attenzione. Quattro ore di
tabelle, diagrammi concettuali e presentazione di casi limite (usati come
esempio). Il tema è serio, nessuno interrompe, nessuno fa domande.
Esame finale. Lo passo pur rendendomi conto che molti
concetti risultano lontani dalla mia formazione. Devo cambiare approccio se
voglio lavorare qui. L’attitudine al cambiamento è fondamentale.
Usciamo dall’Università tutti e quattro soddisfatti, l’esame
è andato bene a tutti. Siamo consapevoli di tornare a lavoro con una
responsabilità in più ma questo non ci spaventa.
Il turno di notte è sempre stato, per me, quello più
difficile. Sono costretto a combattere il sonno che inevitabilmente arriva
puntuale. Non posso dormire, devo restare sveglio. Preparo la terza tazza di
americano e giro tra le dita l’ennesima sigaretta, indeciso se uscire subito a
fumarla oppure tenerla per dopo.
Il telefono dell’ufficio squilla e rimbomba per tutto il
corridoio. Rispondo. Dall’altra parte la voce femminile dell’operatrice in
servizio al piano di sopra.
Mi chiede se posso salire, c’è un problema. Non si dilunga
in dettagli. Riaggancia.
Lascio perdere la sigaretta e la tazza di caffè appena
fatto. Mi precipito di corsa su per le scale. Arrivato al piano, vedo
l’operatrice ferma sulla porta dell’ufficio. Mi chiede di controllare la
paziente alla stanza 32. Specifica che si tratta di un DNAR.
Mentre percorro il corridoio mi ripeto mentalmente le
lettere dell’acronimo. D-N-A-R. “Do not attempt resuscitation”. Indica un piano
assistenziale ben specifico e concordato per tempo con familiari e medico. Non
si può praticare alcun atto di rianimazione cardiopolmonare.
Quando raggiungo la stanza, so già quello che mi aspetta.
Apro lentamente la porta.
Se non fosse per lo strano colore del volto e la bocca
spalancata, sembrerebbe quasi che stesse ancora dormendo. A disturbarla, c’è
solo il ronzio della pompa infusionale che spinge morfina e benzodiazepine in
circolo. Disturba anche me. La spengo. Non credo sia più necessaria.
Controllo l’orologio. 2:34 AM. Inizio la constatazione del
decesso.
I controlli vanno eseguiti a tempo zero e poi ripetuti ad
intervalli cadenzati.
Terminato il primo ciclo di controlli mi accorgo che
l’operatrice mi guarda dalla fessura della porta socchiusa. Mi sembra
intimorita. Le faccio cenno ad entrare.
Insieme sistemiamo il corpo in una posizione quanto più
naturale.
Le chiedo di preparare la documentazione che dovrò
compilare, io rimango dentro ad ultimare i controlli.
Chi esegue la constatazione del decesso, ha anche la
responsabilità di comunicarlo ai familiari del defunto ed al servizio sanitario
nazionale per avviare così la burocrazia relativa al caso.
Guardo nuovamente l’orologio. 3:04 AM. Gli occhi mi bruciano
per il sonno e sento la bocca impastata. Ma quello non è dato dalla stanchezza.
E’ la paura. Devo svegliare un marito, alle tre di notte, per dirgli che la
moglie è deceduta. Qualcosa mi si stringe nel petto. Un misto di colpevolezza e
disprezzo. Combatto quell’orribile sensazione e afferro dalla stampante un
foglio bianco.
Scrivo a penna un discorso di poche righe, nel miglior
inglese che possa venirmi in mente a quell’ora.
Mi trema la mano. Evito di scrivere in corsivo, che già è
incomprensibile.
Prendo il telefono, compongo il numero e aspetto gli
squilli.
Mi risponde una voce roca, carica di sonno.
Di nuovo quel peso nel petto. Rimango in silenzio qualche
secondo poi mi presento.
Sento piangere dall’altro capo del telefono. Ha già inteso
tutto.
Vado avanti e leggo a bassa voce, senza pause, quello che mi
ero scritto sul foglio.
Mi scuso, come se la responsabilità di quella telefonata
fosse diventata improvvisamente una colpa.
La mia colpa.
Mi ringrazia per averlo avvisato. Riattacca il telefono.
Afferro d’impulso il foglio che ho difronte e lo straccio,
come se bastasse quel gesto a togliere le sensazioni che porto dentro. Non è
così.
Credo serva tempo. Per crescere sia come persona sia come
infermiere. Sono due percorsi che vanno avanti in parallelo e poi, alcune
volte, in momenti particolari, queste due strade si intersecano. Ci sono
momenti, nella vita, in cui, per farcela, bisogna saper essere persone mature.
Altri momenti, invece, in cui bisogna saper esporre il lato del “bravo
infermiere”. Ma non ci sono manuali che specifichino quando e come.
E’ il tempo che lo stabilisce, noi possiamo solo farci
trovare preparati.
Il turno di notte è sempre stato, per me, quello più
difficile. Sono costretto a combattere il sonno che inevitabilmente arriva
puntuale. Non posso dormire, devo restare sveglio…Lo so, questa frase l’avete
già letta, ma è la verità. In quasi dieci anni di turni, non ho mai capito
quale fosse il metodo migliore per abituarsi al turno notturno.
La routine, in un reparto ospedaliero, generalmente, risulta
frenetica durante il giorno e più pacata durante le ore notturne. Spesso, si
tratta di sorvegliare pazienti che riposano. Certo, alcuni riposano meno di
altri. Ma, tendenzialmente, di notte, non accade nulla.
Queste, più o meno, sono state le parole che ho sentito dire
al mio primo tutor didattico, quando ancora ero studente. Aveva pensato bene di
omettere tutta l’argomentazione di contorno, forse non spaventarmi da subito.
Negli anni ho scoperto che di notte, in un reparto, può accadere qualsiasi
cosa. Specialmente se ci si trova impiegati in un contesto chirurgico.
“University Hospital of Coventry and Warwickshire”, reparto
di chirurgia specialistica, urologia. L’unità nella quale lavoro è di dodici
posti letto. Di notte, per l’assistenza, sono previsti due infermieri ed un operatore
O.S.S. Nello specifico, questa notte tocca a me, Camilla, una collega inglese e
Meredith, l’operatrice notturna.
Il reparto è attiguo all’unita di chirurgia addominale. A
separarli c’è solamente una porta antincendio. Formalmente, facciamo tutti
parte del dipartimento chirurgico. Un’intera ala dell’ospedale, suddivisa nelle
varie specialità.
00:32 AM.
Il campanello suona nel reparto di chirurgia addominale, ma
lo sentiamo benissimo anche noi dell’urologia.
Non è il solito campanello che il paziente suona per
richiedere assistenza a letto. Questa volta è un suono diverso. Il volume è più
alto e suona con una frequenza diversa. E’ il campanello delle emergenze. Ogni
letto ne ha uno, situato sul muro, all’altezza della testiera. Tra la presa
dell’ossigeno e la valvola del vuoto. Lo possono attivare soltanto i membri del
personale, per richiedere supporto in caso di necessità.
Noi tre, dal nostro lato, ci guardiamo reciprocamente.
Istintivamente, mi alzo dalla sedia, vado io. Se sta ancora suonando è perché nessuno
ha ancora risposto.
Raggiungo il letto dal quale proviene l’allarme e la scena
che trovo, non fa presagire nulla di buono.
L’infermiera che ha attivato il segnale è ferma a bordo del
letto, impietrita.
C’è anche il medico di guardia, a guardarlo sembra più
giovane di me. Tiene due dita a lato del collo del paziente. Trema
vistosamente, cerca il polso carotideo. Non lo trova. Non perché non sia in
grado di farlo. Semplicemente non c’è. Il paziente è in arresto
cardiocircolatorio. Bisogna rianimare.
Accadono, forse contemporaneamente, due cose. Alla mia
destra, mi ritrovo un carrello per le emergenze, fornito di tutto il necessario
per gestire uno scenario come quello. Contemporaneamente, mi si annebbia la
vista. Strizzo gli occhi sperando che non sia dovuto ad un calo di pressione improvviso.
Non sarebbe appropriato svenire davanti ad un’emergenza, diventando così anche
il tema dei pettegolezzi che girano vorticosi nell’ambiente ospedaliero.
Quando li riapro, tutto mi sembra procedere con estrema
lentezza. Apro l’ultimo cassetto del carrello, afferro il pallone Ambu, attacco
il tubo alla presa a muro per l’ossigeno. Quindici litri al minuto. Tengo ferma
la maschera sul volto del paziente, la fisso con le dita di una mano, con l’altra
ventilo.
Il medico nel frattempo ha iniziato le compressioni
toraciche. Conta lui, conto io. Trenta e si ferma. Due insufflazioni. E
ricomincia. Tutto continua a scorrere lentamente, provo a non farci caso. Tengo
lo sguardo fisso sulla faccia del paziente. Ha gli occhi aperti ma non mi sta
guardando.
Improvvisamente, alla mia sinistra, sento del vociare. Mi
accorgo in un secondo momento dell’arrivo del team di rianimazione. Sono tutti
vestiti in “blue navy”. Si muovono compatti e all’unisono. Danno istruzioni a
tutti. Cedo l’Ambu ad uno di loro. Mi faccio da parte, il mio lavoro è finito.
In circostanze simili, c’è sempre un operatore che rimane
lontano dalla scena e coordina. Non può toccare il paziente per evitare il calo
di concentrazione sistematica che ne conseguirebbe. Deve avere sempre chiara la
visione d’insieme. La scena nel suo complesso. Per non omettere nulla che
potrebbe rivelarsi definitivamente fatale. Ho tutto in testa, statistiche
incluse. Ho superato da poco l’esame di gestione emergenze ma, ancora una
volta, libri, numeri e simulazioni, non bastano. La realtà è diversa e c’è
sempre qualcosa da imparare.
Guardo il team leader impartire istruzioni. Mi affascina la
sicurezza che trasmette. Il mio impiego sarà anche finito ma almeno posso guardare
ed imparare. Lo osservo ancora con attenzione.
“You, suction device”. Si rivolge a me con tono deciso ma
non imperativo. Pensavo di dover solamente restare a guardare ed invece mi
vuole operativo. Sento l’effetto dell’adrenalina che entra in circolo.
Predispongo l’aspiratore e lo collego alla presa sul muro.
Lubrifico il catetere e mi coordino con la dottoressa che, nel frattempo, sta
ventilando. Ad intervalli regolari, introduco il catetere ed aspiro eventuali
secrezioni. Alla terza volta, non aspiro più nulla. Sento tra le dita che il
catetere non incontra resistenza mentre scende lungo le alte vie aeree. Lo
comunico ad alta voce al team leader. Mi fa cenno di aver percepito l’informazione.
Si va avanti così per alcuni minuti. Trenta compressioni,
due insufflazioni. Ad un tratto, il segnale del defibrillatore concede una
tregua. L’analisi del ritmo cardiaco dura solo pochi secondi. Mi faccio avanti,
adesso o mai più. Mi offro per dare il cambio nel proseguire i cicli di
compressioni toraciche. Il team leader approva. Mi metto in ginocchio sul
letto, a lato del paziente. Aspetto.
Dal dispositivo elettronico arriva il segnale che stavo
aspettando: “Restart CPR”. Incrocio le mani, fisso con lo sguardo il punto sul
torace ed inizio a premere ritmicamente.
Con l’orecchio ascolto il metronomo acustico del
defibrillatore. Mentalmente canto una canzone per darmi il ritmo giusto. “Nellie
the elephant” dei Toy Dolls. Una canzone punk rock del 1984. Se si segue la
cadenza ritmica del ritornello, si ottiene la giusta frequenza per la
compressione toracica.
“Effective CPR”. Il dispositivo elettronico mi segnala l’efficacia
della mia tecnica.
“It’s Nellie the elephant”, rispondo io col fiato corto per
la fatica.
Vedo il team leader sorridere. Mi comunica che farò anche il
ciclo successivo. Scuoto il capo in maniera affermativa. Rimango al mio posto.
Altro ciclo di analisi del ritmo cardiaco. Prendo fiato. Stiro le braccia verso
l’alto poi torno in posizione.
“Restart CPR”. Ricomincio.
Premo verso il basso, affondo le mani nel torace, poi tono
su. Ripeto le operazioni in maniera meccanica e decisa. Sento le braccia
bruciare. Al terzo ciclo rifiuto il cambio.
Sento rumoreggiare dietro di me. Non ascolto, resto
concentrato e vado avanti.
Capto solamente spizzichi della conversazione che si sta
tenendo alle mie spalle.
“Twenty minutes”. Questo lo capisco.
Venti minuti di rianimazione cardiopolmonare. Nessun segno
di ripresa.
Sento una mano che si appoggia sulla schiena. Mi giro
leggermente, vedo un braccio, poi tutto il resto. E’ il chirurgo del reparto.
Deve essere arrivato da poco perché sono convinto che prima non ci fosse.
“It’s enough”. Mi fa capire che abbiamo fatto abbastanza,
che è tempo di lasciare andare. Di non accanirsi.
Mi fermo, inizio a guardarmi attorno. Nessuno si muove lentamente
come prima. Non che lo facessero, era solo la mia percezione ad essere
distorta. Scendo dal letto e vedo la scena nella sua totalità. Più di dieci
persone, tra infermieri, rianimatori e chirurghi. Tutti attorno al letto. Tutti
in silenzio. Non c’è spazio, né voglia di aggiungere altro.
Che questo epilogo fosse atteso, calcolato e preventivato,
l’ho saputo solamente dopo.
Tocco la spalla di quella persona stesa a letto, di cui non
conosco nemmeno il nome. Scusa, ma ho fatto il possibile.
Mi giro per tornare nel mio reparto. Il mio turno non è
finito.
“Vaffanculo, arrivi sempre di notte”.
Me la prendo con Lei perché ho bisogno di trovare un
responsabile ma è soltanto la mia ingenuità istintiva.
Devo crescere oppure smetterla di cercare sempre un “perché”
nelle cose. Oppure entrambe le cose.
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