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L’altra realtà.

 

Dunque, posso considerarmi soddisfatto ed appagato?

Appena tre mesi dopo la laurea mi ritrovo all’estero, con un contratto a tempo indeterminato, alloggio compreso per un intero mese. Nel giro di poche ore capisco subito che, forse, non è tutto così splendido come poteva apparire.

Facciamo un passo indietro. Lasciamo il “me” giovane e pieno di speranze all’ingresso della nuova azienda. Poco prima di conoscere i colleghi ed il nuovo ambiente che mi avrebbe ospitato.

 

Io parto a Marzo 2015 subito dopo aver inviato tutta la documentazione all’ordine degli infermieri inglese (NMC, Nursing and Midwifery Council). In quel periodo, si riservavano circa otto settimane per validare tutta la documentazione inviata e dichiarare un infermiere straniero, idoneo al servizio in Inghilterra.

In questo lasso di tempo, non sarei stato considerato infermiere a tutti gli effetti. Ma decido di partire lo stesso. Un accordo interno all’azienda prevede che mi avrebbero assunto (e pagato di conseguenza) inizialmente come “Healthcare Assistant” fino al giorno del verdetto. Quindi il mio obiettivo era relativamente semplice. Nei due mesi di tempo avrei dovuto imparare la lingua (il dialetto della zona) e tutto l’aspetto socio-assistenziale che compete all’infermiere in Inghilterra. Lavorando come operatore socio sanitario e studiando nel tempo libero per colmare i vuoti legislativi che per questioni geografiche non potevo conoscere in anticipo.

Prima questione spinosa: al momento del mio arrivo, non sarei stato considerato “infermiere”. Questa discrepanza di ruolo si concretizza con mansioni e salario del tutto differenti da quelle previste.

L’aspetto positivo è sostanzialmente uno: per me è tutto “nuovo” quindi non mi focalizzo sul mero aspetto economico della faccenda e colgo l’occasione per imparare quanto più possibile.

Cerco di restare positivo proprio perché consapevole in anticipo di quello che avrei dovuto affrontare a livello lavorativo.

 

Un mese di alloggio (e pasti inclusi) compreso nel contratto. Questo, per permettermi di trovare casa in maniera rilassata. Che forza questi inglesi, pensano davvero a tutto.

 

Conosco finalmente la Manager che mi aveva assunto (fino a quel momento un volto noto solamente attraverso uno schermo elettronico). Una persona dalle maniere decise e dal curriculum sostanzioso. Entrambi qualità che colpiscono subito un neo-laureato. Al mio arrivo in struttura faccio anche la conoscenza del resto dello staff. Presentazioni veloci, avrò modo di conoscere tutti con calma nei giorni avvenire.

“Nicola, nice to meet you”. Uso la stessa frase con tutti.

“Nicola, nice to meet you too”. Risponde lei.

Non ha capito, eppure mi sembra di essere stato chiaro.

Mi sorride. Mi guardo attorno, sorridono tutti. Allora quello che non capisce sono io. Con parole lente, mi spiega che “Nicola” è un nome femminile in Inghilterra e la maggior parte dello staff si aspettava di vedere una ragazza italiana.

“Take him to his room”. La manager, con fare provvidenziale, esorta la receptionist ad accompagnarmi in stanza, sottraendomi a quel delicato momento di imbarazzo.

 

Aspetta un attimo, ha detto “stanza”?

Seguo la receptionist trascinando la valigia lungo un corridoio laterale. Leggo la scritta “Mental Health” un po’ ovunque. So che la struttura gestisce anche casi complessi di patologie neurodegenerative quindi non mi colpisce troppo trovare questo genere di messaggi.

“Room 5”. La receptionist si ferma, e sorride.

Eccolo lì, il mio alloggio incluso nel contratto. Stanza numero 5, reparto di salute mentale.

 

Spaesato, mi guardo un po’ attorno. La moquette verde scuro ricopre ogni centimetro del pavimento. Tende spesse di colore viola, coprono l’unica finestra presente nella stanza. Letto motorizzato con spondine laterali anti caduta. Il bagno è la versione standard che si può trovare in un qualsiasi Holiday Inn. Essenziale e funzionale.

Sono stanco, mi siedo a bordo del letto.

La testa mi crolla fra le mani. Un po’ è la stanchezza accumulata durante il viaggio, il resto lo fa lo sconforto. In quel momento i pensieri iniziano a riordinarsi nella mente. Capisco che dovrò passare lì le prossime settimane. Dovrò lavorare e nel frattempo organizzare da zero la mia nuova vita.

Per lavorare in Inghilterra serve il NIN (National Insurance Number), ovvero un codice identificativo che permetta al fisco di identificarti come lavoratore “regolare”. Mi sarebbe servito anche un conto corrente bancario nel quale versare lo stipendio. Avrei dovuto cercare casa. E soprattutto, avrei dovuto studiare le normative sanitarie che regolano l’attività infermieristica.

Mi rendo presto conto che non so nulla. Non so da dove partire. Rifletto. Forse ho fatto il passo più lungo della gamba. La paura, che da qualche ora mi aveva lasciato in pace, torna a farsi sentire. Va d’accordo con lo sconforto che sto provando. Il cocktail emozionale che sto assaporando è squisito.

Voglio urlare e piangere.

Bussano alla porta, ho un sussulto. Inalo quanta più aria ci possa stare nei polmoni. Un secondo di apnea e poi butto fuori. Sono calmo, mi alzo e vado ad aprire.

Ancora la receptionist, sorride ancora. Sorride sempre. Dice che mi vuole accompagnare a visitare la struttura. Ne approfitto per distrarmi e familiarizzare con l’ambiente.

 

L’edificio è grande, due reparti di degenza al piano terra, dove sono trattati i casi più gravi di patologia di Alzheimer e di decadimento cognitivo. Un reparto al piano superiore, dove si gestiscono casi di oncologia terminale. Capisco subito che, il mio, non sarà un incarico semplice. I pazienti che vedo durante la mia prima visita alla struttura versano quasi tutti in uno stato grave del loro percorso patologico. Mi chiedo che differenza possa fare il contributo di un infermiere, straniero, neo-laureato, al suo primo impiego.

Noto però anche un'altra cosa. Lo staff, gli infermieri e gli operatori nei reparti sembrano sereni. Vedo molto dialogo ed interazione con le persone malate. In un angolo, una giovane ragazza legge ad alta voce le notizie da un giornale quotidiano. Gli anziani, in semicerchio, commentano.

Seduti ad un tavolo, altre due operatrici assistono dei pazienti con il pasto. Ci sono bolle di serenità sparse qua e là.

A volte, le urla dei pazienti, provocate dalle crisi, spezzano l’andamento quasi disteso della mia visita.

 

Nel pomeriggio mi comunicano che, nei primi giorni, non sarò impiegato attivamente nei turni di lavoro. La burocrazia da affrontare è molta e questo mi concede un inizio più graduale. Rientro in stanza solamente verso l’ora di cena. Ho bisogno di restare solo, chiarire i pensieri e soprattutto chiamare a casa.

Faccio una doccia bollente, l’ambiente si riempie immediatamente di un vapore piacevole. Mi rilasso.

Steso a letto, guardo l’orologio. Un’ora di fuso orario, i miei dovrebbero essere tornati a casa dopo il lavoro. Li chiamo. Cerco di essere convincente e in parte non mi devo nemmeno sforzare. I colleghi e tutte le persone conosciute fino a quel momento sono state estremamente cordiali nei miei confronti. Sinceramente, non me lo aspettavo.

Spiego loro dove mi trovo. Filtro le parole con discrezione. Dormo in un reparto di salute mentale ma non vi risulto ufficialmente ricoverato. A casa rimangono tutti un po’ perplessi.

Alla fine della telefonata sono irrimediabilmente malinconico. In testa mi parte una strana associazione di pensieri. Un treno che lascia a gran velocità la stazione Malinconia, sfreccia su binari musicali. Prima fermata: Lou Reed. Si ferma poco e riparte. Seconda fermata: The Killers. Qui ci rimane un po’ più a lungo.

Grazie a quelle melodie l’asticella del morale inizia un po’ a salire.

Ne approfitto per fare ancora un paio di telefonate. La prima alla mia ragazza. Il copione che seguo, è lo stesso di prima. Filtro le parole, bilancio e soppeso il valore delle frasi. Racconto e maschero. Faccio una battuta stupida. La sento ridere dall’altro capo del telefono. Nella mia testa la vedo aprirsi in quel sorriso. Penso a quanto sia bella.

Chiamo anche i miei amici, quelli storici che sono rimasti tali anche dopo la laurea. E nonostante la mia partenza quasi improvvisa. Scherziamo un po’ e li rassicuro. Va tutto bene ragazzi.

 

Timidamente decido di uscire dalla stanza. Attraverso il reparto. Saluto un’operatrice in turno. Esco fuori, sul retro del reparto c’è un piccolo tavolino, qualche sedia e un posacenere. Diventerà il mio rituale serale nelle settimane successive. Caffè americano e sigaretta prima di andare a dormire. Da lì mi intratterrò al telefono con familiari ed amici. Ancora oggi, quando ripenso a quel piccolo angolo sul retro, provo le stesse emozioni. Un piccolo spazio personale dal quale mi riconnettevo a Casa.

 

La mia prima notte nel reparto di salute mentale è solo un preambolo di quello che sperimenterò nelle settimane successive.  Le urla di una paziente, forse la mia vicina di stanza, mi svegliano di soprassalto. Ci metto qualche secondo a realizzare cosa stia succedendo nel corridoio. Sento l’operatrice intervenire prontamente. La crisi è risolta, la paziente riaccompagnata in stanza.

Ormai sono sveglio, guardo l’ora. Le due. Mi giro un paio di volte nel letto e fortunatamente trovo una posizione comoda. Finalmente posso dormire.

 

Bussano alla porta, mi sveglio immediatamente. Sento che dall’altro lato stanno cercando di aprire la porta. Guardo l’ora. Le tre e venti. Con fare un po’ preoccupato e un po’ spazientito, mi alzo e decido di andare a controllare. Tolgo la sicura alla porta e apro.

Davanti a me una signora asiatica, piccolina. Il viso è grazioso. Capelli fini e scuri. Indossa la divisa da operatrice e questo un po’ mi rassicura. Con un inglese tutto suo mi spiega che sta facendo il giro del reparto per cambiare i pannoloni agli incontinenti. Nessuno l’aveva avvisata del mio arrivo. Sorrido. Lei mi guarda mortificata dal basso verso l’alto. Cerco di spiegarle, al meglio delle mie capacità linguistiche (anche il mio inglese non è brillante, specialmente alle tre di notte), che fortunatamente non ho bisogno del pannolone. Per ora, almeno. La vedo arrossire e passarsi la mano davanti al viso più volte. Dice qualcosa nella sua lingua e si dilegua.

 

Col tempo, diventeremo buoni colleghi, io e la signora Mei.

Col tempo, scoprirò che la signora Mei è cinese. Ha una figlia che studia a Londra. E’ solamente per il suo amore di madre che si trova in Inghilterra, per stare vicino alla figlia e continuare a vederla.

La signora Mei conosce e pratica il “Thai-chi” con quotidiana meticolosità.

Per caso, o forse per un intricato incrocio di linee del destino, io andrò ad abitare vicino alla casa della signora Mei.

Inizierò ad accompagnarla a casa in macchina, dopo il lavoro, così da evitarle diversi chilometri di freddo e pioggia. Lei scoprirà che vivo da solo e per me preparerà i più buoni ravioli cinesi che io abbia mai mangiato.

Quando, dopo due anni, lascerò quell’incarico per trasferirmi a lavorare in ospedale, la signora Mei mi regalerà un libro. Parla di insoddisfazione e ricerca di sé stessi.

Sto ancora cercando me stesso ma quando, e se mi troverò, vorrei farlo sapere alla signora Mei.

 

 

 

Commenti

luigino masin ha detto…
Bravo Nicola,
sono emozionato e nel contempo curioso di leggere i tuoi episodi di vita inglese.
Sei stato veramente coraggioso e forte nel fare le tue scelte così giovane.
Io e Claudia aspettiamo i prossimi.
Luigino

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