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Hotel One e la mia prigione (Prima Parte).

 

Prima di iniziare questo capitolo, va fatta una doverosa premessa. I fatti raccontati risalgono all’ultimo periodo trascorso in Inghilterra. Agli ultimi due anni, a voler essere precisi, tra il 2019 e il 2021. Questo capitolo, dunque, andrebbe inserito successivamente sulla linea temporale. Tuttavia, per la chiarezza con cui ricordi sono impressi nella mia mente e per l’importanza che hanno avuto, ho deciso di stracciare la canonica linearità narrativa e proporlo qui di seguito.

Tutti ricordano gli anni a cavallo tra il 2019 ed il 2021. Sono stati gli anni della pandemia, delle quarantene e dell’isolamento.

Per me sono stati anche gli anni del carcere.

 

Entro in carcere nell’agosto 2019, più o meno quando la maggior parte dei miei coetanei e connazionali si stanno godendo le meritate vacanze estive.

L’incarico questa volta è diverso. “Band 6 Nurse/ Medical Officer” si legge sul tesserino con il mio nome ed il logo dell’istituto penitenziario. Lo giro tra le mani mentre rimango seduto in macchina ed attendo le sette, l’inizio del turno.

Nei giorni precedenti ho seguito alcuni corsi sulla sicurezza e sulle comunicazioni radio. Alfabeto NATO e frasi standardizzate per comunicare con colleghi e centrale operativa. Ho anche visitato il centro di “Intelligence” dove si analizzano tutte le informazioni utili a garantire la sicurezza all’interno della struttura. Su un muro verniciato di giallo è appesa una bacheca dal contenuto macabro. Un’esposizione di alcune armi artigianali fabbricate illegalmente e sequestrate durante le perquisizioni nelle celle. Penso la facciano vedere a tutti i nuovi assunti, un monito implicito. Un rituale, quasi. Provo a non farmi intimidire.

Esco dall’auto dopo aver lasciato nel cruscotto chiavi di casa, portafoglio e telefono. Porto solamente uno zaino con una borraccia d’acqua e un panino. Ad esclusione del cibo personale, il resto è vietato per regolamento. Attraverso il parcheggio ed entro. L’accesso è garantito solamente dopo aver mostrato il proprio badge alla guardia addetta. Scansione digitale e recupero chiavi e radio personale. Aggancio tutto alla cintura fornita in dotazione e mi avvio verso la sezione “Healthcare”.

La porzione sanitaria del carcere è sostanzialmente costituita da un corridoio sul quale si affacciano vari uffici ed ambulatori, compresa la farmacia. Per quel giorno lo staff si raccoglie nell’ufficio più grande per darmi il benvenuto. Mi sento subito a mio agio man mano che faccio la conoscenza di tutti.

Col tempo, con alcuni colleghi, si instaurerà un vero e proprio rapporto di amicizia.

Ahmed è indiano. Ha studiato come avvocato e farmacista e lì si occupa appunto di farmaci, ordini e prescrizioni. Un ragazzone di una gentilezza esagerata ed il sorriso contagioso.

C’è John, inglese D.O.C. che però ha vissuto per la maggior parte del tempo all’estero, tra Stati Uniti, Filippine e Medio Oriente. E’ il più anziano del gruppo ma la sua esperienza è notevole. Racconta storie della sua vita passata, delle sue quattro mogli e del perché a 73 anni debba ancora fare l’infermiere prima di poter andare in pensione.

I suoi racconti riescono a radunare tutto lo staff attorno a lui. Come nipoti attorno al nonno che racconta. Io sono l’ultimo arrivato quindi devo recuperare in fretta. Si finisce sempre a ridere, quando John racconta una storia.

Conosco Piotr, è un paramedico polacco. Biondo, occhi chiari. Di poco più giovane di me. Per due anni, dentro e fuori dal carcere, saremo quasi inseparabili.

Gabriel è un paramedico filippino che arriva dagli Emirati Arabi. Si unisce allo staff successivamente ma il legame è stretto fin dall’inizio. Io, John, Piotr e Gabriel lavoreremo nello stesso team. Le colleghe ci chiameranno scherzosamente “The Boys”.

 

Per decisione della manager, all’inizio vengo assegnato a lavorare proprio con Piotr e John.

Hanno il compito di mostrarmi tutto. Dalla somministrazione dei farmaci alle visite in ambulatorio. Tutto è diverso rispetto all’ambiente da cui provengo. Le regole e le dinamiche sono proprie di un mondo a se stante. E devo imparare in fretta se non voglio avere problemi.

I miei due mentori svolgono un lavoro egregio. In poche settimane la nuova routine inizia a sembrarmi meno caotica. Comincio a sentirmi meno d’intralcio e riesco a far valere la mia preparazione tecnica.

 

Le giornate all’interno di un carcere possono sembrare monotone e ripetitive. Si incomincia con la somministrazione dei farmici. I pazienti (per me rimangono tali, non importa il motivo o le dinamiche che li hanno condotti lì), arrivano uno dopo l’altro osservati a vista dalle guardie. Si procede con ordine, le varie “ali” del carcere inviano i pazienti e noi, da una finestra munita di sbarre e plexiglass, somministriamo i farmaci prescritti. Bisogna lavorare con precisione e velocità, se sbagli farmaco, si incazzano i pazienti. Se sei troppo lento, si incazzano le guardie. La tabella di marcia è rigida e dettata dall’autorità penitenziaria.

Dopo la terapia, si procede con gli appuntamenti in ambulatorio e le visite di routine nelle celle.

Quando si conducono questo genere di attività in un carcere bisogna sempre tenere a mente alcuni importanti principi. Mai voltare le spalle per prendere qualcosa. Mai sedersi troppo lontani dalla porta dell’ambulatorio. Tenere sempre la radio carica e allacciata alla cintura. Osservare sempre il linguaggio del corpo. Col tempo si acquisisce esperienza e si impara a leggere il comportamento umano, fino a prevederne le alterazioni. Si impara anche a non lasciarsi vedere vulnerabili ed imporre la propria autorità è fondamentale. L’ambiente lo richiede.

Si impara a lavorare a ritmi differenti da quelli di un qualsiasi ospedale. Il ronzio costante di fondo dei messaggi radio disturbano qualsiasi conversazione. Eppure è molto importante sapere cosa sta succedendo tutt’attorno.

 

“Code red, alpha wing, Hotel 1 to attend”.

Quel giorno, John è registrato come Hotel 1. Io sono Hotel 2, di supporto nelle emergenze.

Ognuno di noi ha un nome in codice, una lettera in alfabeto nato che indica la mansione (Hotel, H, sta per healthcare) e un numero, che ne stabilisce la gerarchia.

John si alza di scatto, nonostante l’età. Io afferro la borsa delle emergenze, sono l’ultimo arrivato, rispetto la gerarchia, la fatica tocca a me. Gli sto dietro mentre apriamo e chiudiamo in sequenza le porte che ci separano dall’ala che ha richiesto il nostro intervento.

Un codice rosso viene diramato in radio quando si verifica un incidente che provochi perdita ematica. Non abbiamo altri dettagli. Mi aspetto di tutto. Mentre apro l’ultima inferriata, John mi batte sulla spalla.

“This is yours” mi dice. Mi fa intuire che questo intervento lo devo gestire io. Ha più esperienza di me, se per lui sono pronto, lo faccio. Ho totale fiducia in John e nel suo giudizio.

Entro nel corridoio e regna il caos. Ci sono persone ovunque, detenuti che urlano tra di loro e, a gruppi, inveiscono contro le guardie. Non c’è spazio per passare ma, alla vista di John, tutti si spostano. Detiene una forma di rispetto che ai miei occhi è inspiegabile.

Col tempo capirò che è il suo animo gentile, la sua indole da uomo del nord, tipica dello Yorkshire e la sua attitudine all’ascolto a fare in modo che tutti lo trattino con il dovuto rispetto.

Riusciamo così a farci largo tra guardie e detenuti fino a raggiungere una cella in particolare. Dentro trovo un ragazzo col volto coperto di sangue. Lo faccio sedere sul letto. E’ visibilmente scosso. Urla ma non capisco bene cosa stia dicendo. Usa uno slang di strada e pare si stia riferendo a qualcosa in particolare.

In qualche modo lo calmo e cerco di capire cosa gli è successo. Intuisco che la ferita sia alla testa ma servono maggiori dettagli. Alle mie domande risponde con “nothing”.

Non è successo niente. Ha la testa rotta, il viso coperto di sangue ma non è successo nulla. Per omertà o per orgoglio, non vuole parlare. Se è stato aggredito e, parlando, si risale al responsabile, succede un pandemonio. Fuori nel corridoio, la situazione è ancora calda. Faccio cadere la conversazione. Gli spiego che lo devo visitare. Acconsente.

Lo pulisco con garze umide per trovare la ferita e giudicarne almeno la gravità con un esame obiettivo.

Ha una ferita di circa cinque centimetri sulla sommità della testa. Tutti i tessuti sembrano coinvolti. Trauma cranico. Finisco la visita controllando parametri e reattività delle pupille. E’ giovane, compensa bene ma non posso escludere un ematoma interno o qualcosa di peggiore. John mi guarda e aspetta il mio verdetto.

Chiudiamo la ferita qui e lo mandiamo fuori, in ospedale, per accertamenti. Diagnostica per immagini. Una mia fissazione che risale ai tempi universitari. John scuote la testa con approvazione dopo aver ascoltato le mie motivazioni.

Usiamo colla biocompatibile, più pratica e veloce in casi di emergenza. John incolla, io tengo i lembi della ferita uniti. Alla fine lo vedo abbassare gli occhiali e guardare soddisfatto il lavoro finito. La ferita è chiusa, non sanguina più, eppure sento qualcosa che non mi convince. Provo a muovere la mano. Niente.

Ho il guanto incollato alla testa del mio paziente.

Se tiro, la colla cede, la ferita si apre e ricomincia a sanguinare. Guardo il mio assistito, pare non si sia ancora accorto di nulla. Guardo John che scoppia a ridere, sobbalzando. Non resisto ed inizio a ridere anche io. Le risate contagiano anche il malcapitato che nel frattempo si rende conto che io e lui siamo diventati una cosa sola.

Sfilata la mano, decido di tagliare il guanto, ma non del tutto. Resterà così per una settimana intera, finché la colla non si sarà dissolta completamente.

Una falange di nitrile lasciata come firma del mio primo codice rosso.

 

I turni in carcere sono di dodici ore, dalle sette del mattino fino alle sette di sera. Dodici ore isolati in un ambiente ostile fatto di muri, porte blindate, sbarre alle finestre e filo spinato. Anche noi sottoposti ai ritmi della prigione. Quando le porte sono chiuse, sono chiuse per tutti.

Può capitare di dover passare ore interminabili in attesa. Si aspetta che le celle vengano aperte per poter vedere i pazienti. Si aspetta che finiscano una perquisizione. Si aspetta che capiti qualcosa per intervenire. Si ascoltano i messaggi radio per capire in che momento della giornata ci si trovi. Col tempo, si affinano le tecniche per riuscire a sopravvivere in questo habitat. C’è chi, nelle attese, legge le ultime notizie.

C’è chi preferisce controllare e ricontrollare che lo zaino delle emergenze sia sempre ben rifornito. C’è chi, come John, racconta aneddoti di vita passata oppure ti interroga su argomenti a caso per testare la tua preparazione clinica.

 

Piotr è al computer, legge le notizie. Ci tiene a farmi sapere che la lotteria nazionale è arrivata ad un montepremi di un milione di sterline. “One Million Pounds”. Gli rispondo che quella cifra, io, non la riesco nemmeno a scrivere in cifre. Insiste che sono un sacco di soldi. Sì, gli rispondo, sono un sacco di soldi, ma poi cosa te ne fai. Lui incrocia le mani dietro la nuca, si stiracchia, compiaciuto. Lavoro part-time, mi risponde.

Rido perché non riesco a capire se mi stia palesemente prendendo in giro oppure sia serio.

Insiste. Un sacco di gente farebbe qualsiasi cosa per quella cifra. Adesso ha la mia attenzione. Ho capito, forse, dove vuole andare a parare. La discussione che sta per partire ha una marcata connotazione etico- filosofica ma viene interrotta sul nascere. In ufficio entra Millie, una nostra collega infermiera. Ha un tono di voce altissimo e tende a catalizzare su di se l’attenzione. Ci tiene a far sapere all’intero ufficio che ha appena completato una medicazione ad un arto infetto che descrive con dovizie di particolari.

Piotr guarda Millie e pone quella che diventerà la domanda per eccellenza nel suo gioco perverso. “For one million pound…would you…lick that wound?”. Il ribrezzo scuote tutti i presenti. Io lo guardo e scoppio a ridere. Era appena nato uno dei nostri passatempi preferiti. Importunare altri colleghi e spingerli a confessare fino a che punto sarebbero arrivati pur di guadagnare quella cifra.

Ti rendi conto soltanto dopo di quanto siano stati importanti momenti come questo. Insieme si affrontavano le criticità più dure e stressanti e sempre insieme si cercava di neutralizzare gli effetti che avevano su di noi.  Usavamo la goliardia ed il cameratismo per esorcizzare il dramma della realtà in cui eravamo. Lo sapevamo tutti. Nessuno l’ha mai detto ad alta voce.

 

Sono passati alcuni mesi e mi sento ormai inserito a pieno regime.

E’ l’ora di pranzo e di norma non succede nulla. La prossima apertura delle celle è prevista per le due del pomeriggio. Ne approfitto per mangiare. Entra John in ufficio. Ha la faccia seria, strano. Mi dice che ha parlato con alcune guardie, sta succedendo qualcosa. Istintivamente, controllo il volume della mia trasmittente. E’ al massimo. Tocca a me il turno come “Hotel 1”. Devo stare pronto.

Passano pochi minuti e arriva la chiamata. Non è un codice, è una richiesta. Devo presentarmi all’ufficio del direttore del carcere. Quando arrivo, trovo tutte le gerarchie riunite. Il tema della riunione è chiaro fin da subito. Qualcuno si è barricato nella propria cella, ha improvvisato un arma contundente, stando alle dichiarazioni delle guardie. Minaccia di togliersi la vita. Avrebbe anche dichiarato di essere pronto ad attaccare chiunque tenti di entrare per fermarlo. La situazione è delicata e rischia di degenerare in fretta.

L’incolumità del recluso è il fulcro attorno al quale si stabilisce la strategia di intervento. Un negoziatore viene inviato con la prima squadra. Se non riuscirà a farlo desistere, tenterà quantomeno di guadagnare tempo. Io vengo assegnato alla seconda squadra. Un team con addestramento specifico farà saltare la porta blindata della cella ed entrerà per prelevare il detenuto evitando così l’epilogo peggiore.

In questo genere di interventi è obbligatoria la presenza di almeno un membro sanitario. Mentre attendo che la squadra predisponga l’assetto da irruzione, richiedo supporto sanitario via radio. Se qualcosa dovesse andare storto, l’ultima cosa che voglio è trovarmi a doverla gestire da solo.

 

Percorro il lungo corridoio in silenzio, dietro alle guardie. Sono tutti alti almeno un metro e ottanta. Hanno una corporatura doppia, se non tripla, rispetto alla mia. Indossano una tuta blu, protezioni in kevlar e caschi con visiera balistica. Il primo del gruppo ha uno scudo ancorato al braccio. Altri due trasportano un meccanismo idraulico col quale scardinare la porta. Una guardia riprende la scena con una telecamera.

Prima di varcare la porta dell’ala interessata, abbassiamo il volume delle trasmittenti. L’improvvisato cameraman riprende ad uno ad uno i volti dei membri del gruppo. Una volta inquadrati, ognuno dichiara il proprio nome ed il proprio ruolo. Anche questo è obbligatorio. L’intera operazione è ripresa per ragioni legali così da garantire il rispetto dei diritti del detenuto ed evitare facili abusi.

“Nick, Hotel 1, Healthcare”. Inizia l’operazione.

Una volta in prossimità della cella, il negoziatore ci informa che il suo approccio non ha funzionato. O meglio, non ha funzionato del tutto. Se il detenuto fosse stato davvero convinto, avrebbe già tentato di infliggersi una ferita mortale. Quello che riesco a constatare attraverso l’esiguo spioncino, sono solamente ferite superficiali. Probabilmente a scopo dimostrativo/ intimidatorio. Sembra più propenso a voler attaccare qualcun altro che sé stesso. Tuttavia, in situazioni come questa, non è il caso di mettersi a testare le vere intenzioni di una persona. E’ meglio agire in fretta. Le riflessioni, dopo.

Il detenuto viene ripreso in video mentre dichiara di aver capito quali sono le sue opzioni e decide di non voler collaborare.

Sento la tensione salire, stringo nervosamente le cinghie dello zaino, pronto ad aprirlo in qualsiasi momento. Un botto secco è accompagnato da un po’ di polvere. La porta della cella è scardinata verso l’interno. Urla, rumori gutturali, altre grida. Dalla cella vedo uscire prima un piede, poi l’altro. Piano piano anche il resto del corpo. E’ ammanettato e tenuto fermo da due guardie. Pare si sia deciso a collaborare. Noto immediatamente che le lesioni auto inferte coinvolgo entrambi gli arti superiori. Rimando a più tardi un esame più dettagliato.

Viene condotto in isolamento e nel tragitto gli viene introdotto il nuovo regime a cui verrà sottoposto. Almeno fino al processo che stabilirà le sue sorti.

A fine operazione, in cella di isolamento, riesco a visitarlo con pazienza ed attenzione. Ha solo ferite superficiali che tratto in maniera standard. Mi guarda fisso negli occhi. Cerco di concentrarmi sul mio lavoro pur di non incrociare il suo sguardo ma non ci riesco. Lo fisso anche io e lo vedo per quello che è. Ad occhio e croce ha la mia età. Parla una lingua diversa dalla mia. Abbiamo tratti somatici differenti. Eppure c’è qualcosa che lo fa apparire più simile a me di quel che possa sembrare. Con lo sguardo sembra quasi volermi chiedere scusa e ringraziarmi allo stesso tempo. E’ stremato, appoggia la schiena al muro. Inizia a piangere. Non ho parole di conforto per lui ma gli tocco una spalla e la stringo forte. Non so bene cosa voglia trasmettergli con quel gesto, forse condiscendenza. Raccolgo frettolosamente le mie cose ed esco dalla cella prima di tradirmi e mostrarmi emotivo.

Racconterà che ha deciso volontariamente di comportarsi così, proprio per essere trasferito in isolamento.

Mohammed spiegherà, in sede di processo, di aver contratto debiti all’interno del carcere ma di non avere soldi per ripagare i suoi aguzzini, altri detenuti come lui. Così, dopo le ripetute minacce subite, non si sentiva più al sicuro nemmeno nella sua cella. La paura lo aveva spinto ad un’azione disperata.

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